venerdì 27 settembre 2013

L’obesità in adolescenza: un sintomo mai preso in considerazione

Nei vari ambiti della psicologia, da quella sistemica a quella comportamentale, dalla dinamica all’analisi pura, si è sempre parlato e studiato in modo assiduo dell’anoressia e della bulimia. Lungi da me oggi parlare di queste patologie, di cui esiste un’ampia bibliografia tra cui la più esauriente è quella di Selvini-Palazzoli a cui vi rimando; questo articolo invece vuole porre l’attenzione su un altro fenomeno meno discusso e che invece meriterebbe più di una pagina di attenzione: l’obesità.
L’adolescente ha molti modi per mostrare un disagio psichico, uno di questi è  sicuramente l’anoressia che può manifestarsi in molteplici modi e che può creare nei genitori, soprattutto nella madre, ampie preoccupazioni, proprio quello a cui l’adolescente punta (inconsciamente o consciamente parlando).
Un altro modo per mostrare questo disagio è appunto l’obesità. Ma facciamo un passo indietro e interroghiamoci prima su cosa vuol dire per la nostra società il termine obeso.
Giornali e telegiornali ci bombardano mettendoci in guardia dai problemi gravi fisici che si possono incontrare quando si diventa obesi: infarti, enfisemi polmonari, diabete e via dicendo, pericoli gravi e reali che rappresentano però solo il lato inquietante del problema. La società contemporanea presenta l’obeso come un reietto, come un individuo che non si prende cura del proprio corpo, brutto, debole, vizioso, senza volontà e quindi responsabile della propria condizione. La conseguenza diretta, in questo mondo comandato dalle diete e dalle modelle o dai modelli magri e con il fisico asciutto, è che il gruppo dei pari, in adolescenza soprattutto, denigra o fa in modo di non considerare l’obeso come un suo pari. Insomma l’obeso o anche chi è in sovrappeso porta questo fardello di emarginazione e sofferenza da solo.
 A questo contribuisce anche la psicologia che, fino a qualche tempo fa, non ha quasi mai trattato l’argomento al contrario dell’anoressia o della bulimia. E’ vero che i pericoli di morte di una ragazza anoressica sono più impellenti rispetto a quelli di un obeso ma non sono pochi i casi di famiglie giunte in terapia con un/a ragazzo/a decisamente grasso/a e con sintomatologie accessorie più o meno gravi. Per fortuna ora, anche in psicologia esiste una più ampia letteratura per questo problema anche se gli studi sono ancora troppo pochi e certe volte mal condotti.

Ma perché un ragazzino/a raggiunge l’obesità?
Oggi in Italia, un bambino su tre è in sovrappeso e la ragione di ciò, nella stragrande maggioranza, è legata allo stile di vita: mangiano troppo e male e fanno poca attività fisica. Questo è dovuto anche alla tecnologia avanzata che occupa tutto il tempo libero dei bambini: parliamo di iPad, Playstation, Xbox e via dicendo.
Ad aggravare ulteriormente la situazione ci si mettono anche le nostre tradizioni, secondo le quali un bambino che mangia,anche più del necessario, è un bambino che sta bene, mentre uno che non mangia o che rifiuta il cibo non sta tanto bene.
 L’obesità non figura tra i disturbi del comportamento alimentare, non viene menzionata nelle classificazioni psichiatriche e neppure nelle patologie mediche.  E non esiste nemmeno alcuna prevenzione anche perché l’obesità non viene curata in modo appropriato ed è molto difficile che il medico entri nella problematica complessa e psicologica della persona obesa.
Insomma la soluzione proposta è sempre la stessa: dieta e ginnastica!
Ma dove si inserisce allora l’obeso dal punto di vista psicologico?
Un numero consistente di obesi manifesta un comportamento alimentare caratterizzato da crisi ricorrenti di ingordigia incontrollabile, sindrome collegabile anche alla bulimia. Il sovrappeso e il grave eccesso ponderale
sono senz’altro collegabili all’atto del mangiare, ma hanno anche implicazioni simboliche, poiché riguardano il corpo come mezzo di relazione, di espressione e di comunicazione. Il corpo parla più di tante parole e segnala stati di sofferenza profondi, talora negati dall’obeso e dai suoi familiari, ed ha sempre una forte componente relazionale. L’adolescente obeso manifesta una profonda difficoltà nel tollerare situazioni frustranti e l’angoscia che ne deriva crea la percezione di un vuoto che va colmato. La soglia di tolleranza per gli obesi è molto bassa, soprattutto in situazioni sociali e lavorative. Le famiglie degli obesi, di solito, sono famiglie invischiate in cui c’è una mancanza di confini dei ruoli tra i membri della famiglia non solo principale ma anche generazionale, esistono quindi gravi confusioni identitarie tra un membro e l’altro della famiglia. Cosi il corpo dell’obeso è usato come protezione e difesa del contatto relazionale, una sorta di distanza di sicurezza necessaria, da un lato per la paura di perdere l’altro, dall’altro per il timore di perdersi nell’altro. L’abuso della funzione alimentare in adolescenza può rappresentare anche un modo estremo per ricercare la propria identità. Un percorso identitario lungo, difficile e pieno di ostacoli. Ma può anche trattarsi di un modo dell’adolescente di autodistruggersi per gravi problemi familiari o sociali o personali. Insomma l’obesità è sicuramente un fenomeno che non va preso alla leggera e si auspicherebbe, che tutte le componenti sanitarie (medico, psicologo, dietologo, etc) e familiari dialoghino e cooperino per far si che il “peso” che un adolescente o un adulto o un bambino porta con sé, sia capito e analizzato in maniera più profonda e attenta invece di cercare forzatamente con diete o altri modi semplicistici, di risolvere il problema in maniera rapida ma inefficacie.
A presto con un nuovo articolo e come sempre se volete commentare o discutere dell’articolo il blog è a vostra completa disposizione!
Dottor Andrea Graziano

venerdì 12 luglio 2013

La scelta del partner: semplice casualità o scelta oculata?

Prima di parlare della scelta del partner bisognerebbe forse chiedersi perché si sceglie un partner.
È una domanda a cui non è facile dare una risposta. Molti potrebbero sostenere, soprattutto i single,
che loro un partner non lo scelgono perché non ne hanno mai avuto bisogno o non l'hanno mai trovato. Altri risponderanno che vi hanno rinunciato o che hanno scelto un interlocutore spirituale come per i sacerdoti cattolici. Si può comunque dire che vi è una tendenza generale che si basa su una serie di elementi complessi che condizionano questa scelta. Molti di coloro che sostengono di non aver mai sentito il bisogno di un partner possono non rendersi conto che in realtà non si tratta di una mancanza di bisogno ma piuttosto di una rinuncia condizionata.
Ho ragione di ritenere che i motivi principali, per legarsi a qualcuno, siano legati ad alcuni bisogni
fondamentali dell’uomo che si esprimono attraverso i suoi sistemi motivazionali, in particolare quello dell’attaccamento/accudimento e quello sessuale.
Il primo è legato alla ricerca di sicurezza e al bisogno complementare che ne deriva di provvedere all'accudimento delle persone molto deboli. Il secondo è legato alla conservazione della specie attraverso la funzione riproduttiva, finalità originaria dell’attività sessuale, anche se quest’ultima è diventata nell'uomo sempre più indipendente dalla funzione assegnatale, pur conservando un notevole valore nel mantenimento della relazione. Questa linea dettata qui sopra ha il sapore di una prospettiva, però, troppo biologica/evoluzionistica: manca il fattore emotivo/'psicologico che ha la sua notevole importanza.
La scelta del partner è anche una strana mescolanza tra mito familiare e/o ricerca del soddisfacimento di bisogni strettamente personali. Il prevalere dell'uno o dell'altro dipende non solo dalla forza relativa di ciascuno di essi, ma anche dal tipo di relazione esistente con la famiglia di origine. Quando prevale il mito familiare viene prestata più attenzione alle caratteristiche esteriori, al ruolo, alla posizione sociale, ai comportamenti del potenziale partner che devono essere corrispondenti alle aspettative presenti nel mandato familiare, sia implicite che esplicite. Le qualità affettive vengono ritenute conseguenti a queste caratteristiche. Nei casi in cui si verifica una ribellione più o meno cosciente al mandato familiare assistiamo alla scelta di partner con caratteristiche opposte a quello da esse previste. Ciò dovrebbe avere una doppia funzione:
una liberatoria rispetto ad una serie di vincoli affettivi e relazionali sentiti come limitanti per la libertà personale, anche se spesso le aspettative sul piano affettivo rimangono comunque insoddisfatte, e una seconda funzione punitiva nei confronti della famiglia. Si pensi ad esempio a quanto può accadere nella famiglia di un alcolista, che mostra nei momenti di ebbrezza comportamenti aggressivi e violenti, anche sul piano sessuale, nei confronti della partner con un figlio o una figlia spettatori di quanto accade: il contesto, il contenuto, le modalità di relazione verranno ad acquistare per essi un valore di “imprinting percettivo'' non solo in quanto partecipanti diretti all'iterazione, ma anche in quanto osservatori della relazione tra genitori. Si può immaginare benissimo cosa comporti questo meccanismo nella scelta futura di un partner secondo quanto detto fino a qui.
Si può ritenere che la scelta del partner sia espressione di un gioco estremamente sottile e sofisticato in cui
l’attenzione indotta dalla storia familiare e dall'ambiente esterno, diretta a cogliere specifici elementi di interesse nell'aspetto o nel comportamento di una particolare persona, si accompagna ad una disattenzione altrettanto selettiva per tutti gli elementi del suo carattere e del rapporto con essa che potrebbero rendere problematica la relazione o contrastare con il mandato familiare. Insomma quello che viene fuori e che il comportamento, gli affetti, le funzioni e i valori presenti e non presenti nei singoli componenti famiglia di origine determineranno in maniera decisiva la scelta futura del partner.
Facciamo un esempio esemplificativo: se in un mandato familiare la funzione attribuita a una figlia fosse unicamente quella di riuscire a trovare un uomo che soddisfi l’ aspirazione al prestigio sociale che la madre non e riuscita a raggiungere con il proprio matrimonio, il tentativo potrebbe andare a buon fine senza eccessiva difficoltà, con una varietà di opzioni potenziali abbastanza ampia. Se, però, si scoprisse con il tempo che quest'uomo le deve anche confermare la verità di un presupposto secondo il quale il destino delle donne è sempre di vedersi incomprese e maltrattate o poco protette, è chiaro che quella che poteva sembrare una scelta iniziale abbastanza generica acquista un carattere di maggiore selettività. Tanto più il mito familiare sarà forte e ricco e articolato maggiori saranno le possibilità che la scelta della figlia sul partner futuro seguano il mandato familiare.
Altro esempio è quello di una figlia che ha perso il padre in giovane età e vede la madre sempre in sofferenza perché non ha elaborato il lutto e altresì sente la mancanza di una persona che gli dia sicurezza e conforto come, giustamente, vuole sentire una bambina in tenera età e sceglie perciò di relazionarsi solo con uomini maturi e di una certa età per tamponare quella mancanza che per tanti anni ha patito. È consueto vedere dei genitori che più o meno pongono ai figli richieste compensatorie rispetto ai problemi che loro stessi non sono riusciti a risolvere o a relazioni rivelatesi deludenti. Ma non è sempre cosi: l'esperienza clinica sembra dirci che più le relazioni familiari sono prive di elementi conflittuali irrisolti(come il caso precedente della madre non soddisfatta del proprio matrimonio a livello sociale) tanto la scelta del partner è libera nel senso che i vincoli, le preclusioni, la necessità di legarsi ad un particolare tipo di partner sono molto meno pressanti. Quindi concludendo si può asserire che la scelta del partner è un lungo processo che viene condizionato da una serie di fattori psicologici e familiari, non tutti consapevoli e molto intricati. Naturalmente questa è solo una delle tante facce dell' argomento e non ha niente a che fare con la fase dell’innamoramento a cui, magari, mi dedicherò nei prossimi articoli. Se avete domande potete commentare l’articolo o scrivermi nell'apposito spazio delle domande che trovate a destra del blog
Vi auguro un buona giornata a presto.
Dott. Andrea Graziano

giovedì 13 giugno 2013

Il primo colloquio gratuito in psicoterapia: è utile?

Chiunque cerchi su internet uno psicologo o uno psicoterapeuta nella propria regione o città, si ritroverà davanti ad una sfilza di nomi e siti internet di professionisti che offrono all'utenza il primo colloquio gratuito.
In questo piccolo articolo dibatterò i pro e i contro per questa scelta, del tutto personale da parte dello psicologo, in modo che il lettore possa farsi un idea più specifica su chi si trova davanti.

Iniziamo con il dire che l’ordine nazionale degli psicologi, in materia, non dà nessuna linea guida: in pratica il giovane professionista che si affaccia per la prima volta nel mondo del lavoro può decidere autonomamente se inserire questa opzione oppure farne a meno.
Ma perché lo psicologo dovrebbe fare un primo colloquio gratuito?
Sicuramente come prima motivazione c’è il fatto che è un modo piuttosto semplice di farsi pubblicità. Come molti di voi sapranno la pubblicità per un professionista del settore sanitario è praticamente nulla o quasi. Sicuramente le cose andavamo molto peggio prima quando tutto ciò era completamente distante dal mondo psicologico/medico. Ora invece su internet è possibile aprire uno spazio dove presentarsi e far capire il servizio che si offre. Nel mondo lavorativo moderno è molto importante essere competitivi nella dinamica di domanda/offerta, considerato inoltre il grande numero di professionisti di questo settore.

Il primo colloquio gratuito, poi, dà la possibilità all’utente che si approccia per la prima volta alla psicologia la possibilità di conoscere chi ha di fronte e capire se è ciò di cui ha bisogno. Lo psicologo invece può verificare se lui/lei è interessato a intraprendere un lungo percorso di cambiamento e di valorizzazione delle proprie emozioni.
Lo psicoterapeuta che percorre la strada del primo colloquio gratuito crede nella cosiddetta seduta conoscitiva. Io, terapeuta, conosco il paziente e capisco se lo posso aiutare ma soprattutto il paziente conosce me e capisce se si può trovare bene con me, se faccio al caso suo. Insomma la prima seduta è qualcosa a sé stante rispetto a tutta la terapia che poi si andrà ad intraprendere.
Ma le cose non stanno esattamente cosi.
 Il primo colloquio forse è il colloquio più importante di tutta la terapia, non è una semplice chiacchierata come molti pensano, anzi è proprio dalla prima seduta che si può capire se una terapia andrà più o meno a buon termine oppure ci saranno delle difficoltà. Offrire il colloquio gratuito potrebbe
aprire le porte a curiosi che non hanno realmente la minima motivazione ad intraprendere un vero percorso terapeutico, facendo perdere tempo al terapeuta che ha invece come prima motivazione quella di interessarsi in modo serio e professionale ai problemi che la persona porta nel setting terapeutico.
Ho conosciuto parecchi psicoterapeuti, che facevano uso del colloquio gratuito, che avevano pazienti che richiedevano il colloquio e non si presentavano o si presentavano una volta e poi non si presentavano più oppure che andavano in terapia con enormi difese riguardo le proprie emozioni.
Ma perché succede questo? Io me lo sono chiesto e ho cercato di capire cosa pensa persona che vede tale annuncio.
Sicuramente vedrei lo psicologo/psicoterapeuta svalutato delle sue funzioni. Perché sta offrendo un colloquio gratuito? Forse non è bravo abbastanza e vuole procacciarsi cosi i clienti? La sua formazione universitaria è minore, ad esempio, rispetto a quella di un chirurgo che si fa pagare 200 euro a visita?
L’utente potrebbe anche pensare in questi termini: vado a farmi una chiacchierata e vediamo cosa ne esce fuori tanto non pago nulla! 
 Le implicazioni di questa frase sono molteplici. La prima che salta subito agli occhi è che la persona non è realmente motivata nel mettere in gioco le proprie emozioni. Ma se non c’è motivazione non c’è impegno e lo psicologo/psicoterapeuta senza questi due fattori poco può fare per la persona. Anzi può essere che l’utente si presenti con aria di sfida: vediamo ora se questa/o capisce i miei problemi senza che io faccia niente per mostrarli. Ma la psicoterapia non funziona cosi. È un cammino che si fa insieme in cui terapeuta e paziente collaborano verso un obiettivo comune. Se uno dei due “viene a mancare” non si andrà da nessuna parte.
L’ultimo aspetto riguarda proprio lo psicologo/psicoterapeuta: fare il primo colloquio gratuito cambia le motivazioni anche nel professionista. La sua reale motivazione nel primo colloquio non sarà quello di aiutare sin da subito il paziente che ha di fronte ma cercare di convincerlo che lui/lei è la persona giusta. Secondo voi una terapia iniziata cosi può avere uno sviluppo? Difficile.

Il mio pensiero credo l’abbiate capito, lo psicologo è un professionista che ha sudato e studiato tanto per arrivare alla libera professione in modo competente. Non farsi pagare sin da subito, con chiarezza, sarebbe dare un messaggio sbagliato all’utenza che deve essere altamente motivata per intraprendere un viaggio nelle emozioni più profonde. L’aspetto economico ha un aspetto rilevante anche nel processo terapeutico.
Ora, se ne avete voglia, a voi la parola; aspetto le vostre impressioni sull’argomento.
Alla prossima!
Dott. Andrea Graziano

venerdì 31 maggio 2013

Psicologi, psicoterapeuti….. e imbroglioni


Una ragazza dopo 23 anni di vita bellissimi, con un curriculum scolastico e universitario eccellente, non riesce più a dare esami.
Sente una forte sudorazione, la notte non riesce a chiudere occhio, non apre più un libro per paura di non potercela fare a superare quell'esame che ora appare difficile come non mai.
Subentra allora uno stato ansioso che rende la vita lavorativa di questa ragazza un piccolo/grande inferno.
Che fare? Come superare questo blocco?
Tutti ormai hanno sentito parlare almeno una volta nella vita  di professionisti quali psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, neurologi etc. ma chi contattare in un caso come questo? Come fare a districarsi tra le varie proposte presenti nel settore del benessere della persona?
Questo primo articolo di questo mio blog cercherà di fare un po’ più di chiarezza su questo argomento, dato che differenze, come vedremo, ce ne sono molteplici e molte volte non di piccola portata.
Ma non solo! Perché in questo marasma generale si inserisce anche chi, spacciandosi come psicologo, truffa la povera gente che in quel momento cerca solo un sostegno ed un aiuto per un problema apparentemente insormontabile.

Ma chi è lo psicologo?
 L’assenza di una cultura psicologica in Italia ha fatto nascere molti luoghi comuni riguardo la definizione di psicologo, che spesso viene visto come il dottore dei matti, lo strizzacervelli, una specie di metal-detector che ti “psicoanalizza”, colui che ha tutte le risposte, chi ha una bacchetta magica per risolvere tutti i problemi che uno ha, l’impiccione che vuole solo farsi gli affari altrui, una persona buona che ti consiglia o ti conforta, il dottore che ti cura e ti guarisce, un’inutile spreco di soldi e di tempo. In realtà non è niente di tutto questo!
Lo psicologo è un professionista che lavora nel campo della salute con competenze e funzioni specifiche. Il suo lavoro consiste nel favorire un cambiamento a livello psichico e comportamentale, attraverso strumenti specifici come la relazione e la parola. Lo psicologo lavora assieme al paziente. Il paziente deve essere motivato a farlo, perchè nessuna terapia funziona senza che il paziente non lavori su sé stesso anche a casa tra una seduta e l’altra. Lo psicologo è in grado di empatizzare con i vissuti del paziente e favorire maggiori consapevolezze che possano portare ad un cambiamento. La possibilità di condividere ed esplorare in profondità, con un professionista competente i propri vissuti, le proprie ansie e debolezze e di capirle insieme, porta all’acquisizione di nuovi strumenti psichici e relazionali. Chiunque in qualsiasi momento della propria vita può avere bisogno, o meglio avere voglia, di rivolgersi ad un professionista. Tutti noi abbiamo sentito questo desiderio/bisogno ed è per questo che non dobbiamo considerarci malati o giudicarci strani, non coraggiosi, deboli, pazzi o senza speranze quando lo avvertiamo.
Al contrario! Stiamo esprimendo il bisogno ed il desiderio di prenderci cura di noi stessi per uscire da un disagio, dalla sofferenza o da una situazione di stallo. D’altra parte nessuno si sente strano quando deve andare dal medico perché sta male fisicamente.
Ma cosa può fare nel concreto uno psicologo? Può utilizzare dei test diagnostici della personalità per vedere in quale area può esserci una difficoltà o un blocco. Test che variano da disagio a disagio, da persona a persona. Lo psicologo però ha un limite: non può superare le 10 sedute con il paziente poi necessariamente, dopo aver appurato una prima diagnosi, può mandarlo da uno psicoterapeuta o da uno psichiatra. 
Chi è uno psicoterapeuta?
Lo psicoterapeuta è uno psicologo che consegue una specializzazione in terapia presso delle scuole di specializzazione private. Queste sono legittimate da una Commissione di controllo del MUR – Ministero dell’Università e della Ricerca – ad erogare formazione specialistica. Quindi rispetto allo psicologo lo psicoterapeuta può fare più sedute delle dieci dello psicologo, può fare test diagnostici e il suo intervento va dal generico disagio ansiotico o comunque esistenziale alle forme di disturbi più strutturati come la depressione, la psicosi, le fobie, le ossessioni, i disturbi alimentari, l’abuso di sostanze stupefacenti, etc.
Esistono inoltre tipi differenti psicoterapeuti. Esiste lo psicoterapeuta comportamentale (che agisce sui comportamenti visibili del paziente e solo su quelli), lo psicoterapeuta sistemico-relazionale (vede il paziente inserito in un sistema relazionale più vasto come lo è la famiglia), l'analista(che si rifà alla teoria psicoanalitica di Freud). Questi sono i più famosi e piu comuni tra psicoterapeuti. In questo contesto si è appena inserito lo psicoterapeuta PNL(programmazione neuro-lingustica) che ha come suo punto forte la comunicazione e il linguaggio non verbale.

Diversa collocazione trovano invece lo psichiatria, che si occupa dello studio e della cura dei disturbi mentali, e il neurologo entrambi laureati in medicina e chirurgia. Lo psichiatra è un medico e ha una formazione di tipo prevalentemente biologico. Nel corso degli studi per la specializzazione in psichiatria non c’è spazio per lo studio dei fenomeni psicologici normali (per esempio il pensiero, le emozioni, l’apprendimento, il rapporto con gli altri) benché un certo numero di ore venga dedicato allo studio della psicologia dei disturbi mentali. Lo psichiatra è l’unico che conosce i criteri per la somministrazione degli psicofarmaci. Molte volte, quando sussiste un caso di psicosi grave o di disturbi mentali con cause organiche, la collaborazione tra psichiatra e psicoterapeuta è indispensabile per una corretta ripresa del paziente.
Il neurologo invece è colui che è specialista nella branchia medica della neurologia,studia le patologie inerenti il sistema  nervoso. Quindi si occupa di malattie fisiche tipo ictus, morbo di Parkinson, sclerosi multipla ect. Non si occupa della parte emotiva del paziente.

Ma come fare a non incappare, invece, in persone che non rientrano in questa serie di professionisti e che vogliono invece truffarvi?
Ricordatevi uno psicologo o psicoterapeuta è un laureato in psicologia e abilitato alla professione mediante tirocinio e l’esame di stato, pertanto potete consultare gli elenchi disponibili on-line sul sito dell’ordine degli psicologi della vostra regione o quello nazionale. Fate sempre attenzione agli attestati del professionista, sono molte le persone che si spacciano psicologi e che magari invece sono diplomate in ragioneria e hanno solo seguito dei corsi in psicologia, oppure sono degli insegnanti che prendono in carico i bambini e gli adolescenti e che nulla hanno a che vedere con la branchia della psicologia e della psicoterapia.
 Per andare oltre la decima seduta ricordatevi che lo psicologo deve essere anche psicoterapeuta e per esserlo deve essere in possesso della specializzazione quadriennale in una delle tante scuole private o comunque essere iscritto ad uno di questi corsi da almeno due anni secondo la legge vigente, inoltre dopo una prestazione deve emettere regolare fattura essendo, il professionista, in possesso di regolare partita IVA detraibile dalle vostre tasse.
Diffidate da psicologi che vogliono somministrarvi farmaci! Ricordate lo psichiatra è l’unico in grado di valutare e prescrivere l’uso degli psicofarmaci, se lo fa uno psicologo o uno psicoterapeuta segnalatelo all’ordine degli psicologi o denunciatelo alle autorità competenti!
In ultimo diffidate da psicologi che usano le tecniche new age come i chakra, reiki, altre tecniche orientali o camminare sui carboni ardenti! Non c’è alcun fondamento scientifico che confermi che tutto questo possa curare,ad esempio, un disturbo d’ansia o delle fobie persistenti. Anzi in certi casi la sintomatologia può anche peggiorare se non trattata con le dovute cautele!

Spero che questo articolo sia stato di vostro gradimento e vi aspetto numerosi per il prossimo post.
Avete dei dubbi, delle curiosità? Che aspettate, domandate pure!
Alla prossima.

Dott. Andrea Graziano